(Durante la lettura è consigliato l’ascolto della canzone “Jenny è pazza” di Vasco Rossi)
Quando entravi all’interno della stanza potevi sempre scorgerla, tra una pausa e l’altra, sorreggersi al termosifone. Il freddo le faceva battere i denti e le mani si rifugiavano all’interno
della manica del lupetto, sperando che almeno questo bastasse per salvarla dai brividi di gelo. Riguardo all’estetica, non so se la sua bellezza potesse essere paragonata a quella della monaca manzoniana, ma una cosa era comune: sul suo volto non sbocciavano più papaveri delicati e tulipani gialli, questi ultimi erano stati sostituiti da rose rosse e orchidee morenti. Il viso dava l’impressione di essere poco curato e le sopracciglia folte erano accompagnate da qualche peletto che si distingueva dalla massa. Le guance erano scavate e gli occhietti, che prima si illuminavano radiosi, ora si inclinavano spenti, dando quasi l’impressione di poter scivolare via dal volto come gocce d’acqua.
Lo sguardo saltellava da un lato all’altro della stanza, come un cerbiatto terrorizzato in cerca di una via di fuga: se lei era a te ignota come persona, avresti potuto pensare che stesse studiando l’ambiente o fosse semplicemente annoiata; se invece avevi avuto la possibilità di far la sua conoscenza prima che te la presentassi io con queste parole, avresti saputo che era un grido d’aiuto, un modo per salvarsi. Le dita, che talvolta uscivano dal loro rifugio per ripararsi poi nelle tasche, erano sempre più esili e potevi notare il colorito violaceo e cadaverico che assumevano con il freddo. Il corpicino minuto, privo di curve, diventava giorno dopo giorno più schiacciato. Come un panno impregnato d’acqua che viene strizzato finché non perde totalmente il suo volume, della ragazza vivace e intraprendente rimaneva un topino spellato in cui si potevano intravedere le ossicina fragili e la trama bluastra delle vene.
Nonostante tutte queste caratteristiche che avrebbero dovuto dare nell’occhio, come un triste grido d’aiuto, se ne restava in disparte sul suo termosifone a catalogare i suoi pensieri e a specchiarsi nella finestra che la affiancava, disapprovando ciò che vedeva e probabilmente assillandosi con la sua stessa mente.