Carissimi genitori e figli,
se l’anno scorso nell’augurio pasquale vi scrivevo che era stato un mese unico, oggi devo aggiungere che è stato un anno unico, perché tenuti sotto scacco da un virus inafferrabile e causa di grave disagio personale e sociale. La pandemia ha rivelato il dolore del mondo e le sofferenze profonde; i volti degli anziani stampati sulle vetrate delle Rsa, per poter vedere e avvicinarsi ai propri cari, sono l’emblema di un forte desiderio di libertà e di vita imprigionato.
Si è consolidato un nuovo paradigma: la precarietà, per cui si naviga in un oceano di incertezza, coltivando la speranza di un approdo sicuro. In questa situazione non ci basta non morire, perché non è ancora vivere; nonostante una paura corrosiva che sembra diventare predominante su ogni altro sentimento, c’è un grido di vita che esce dai nostri cuori. Quando percepiamo che la vita è di più delle banalità che la deviano dalla rotta principale, è allora che cessiamo di vivere ossessionati da ciò che è inutile, prigionieri di quei dettagli ridicoli che ci schiavizzano.
Un papà, alcuni giorni fa, mentre riportava a casa da scuola sua figlia di quattro anni si è sentito rivolgere questa domanda, sorprendente e impensabile: “Papà, i grandi sono felici?” Lui si è preso la bambina in braccio ed è riuscito soltanto ad abbracciarla a lungo. “Se rispondevo, scoppiavo a piangere”.
Nella paura che ci affligge, anche in questo tempo emergono desideri forti che possono diventare generativi di vita felice. C’è un dovere da coltivare, la speranza. Di fronte alla realtà che viviamo è facile cedere alla tentazione della rassegnazione o alla trappola del cinismo disperante di chi pensa che esiste un punto di arrivo, ma nessuna strada.
Si dice che gli esseri umani possano vivere quaranta giorni senza cibo, quattro giorni senz’acqua, quattro minuti senz’aria, ma nessuno di noi può vivere senza speranza. Se ci guardiamo attorno e mettiamo in fila gli sguardi di tanti, anche i nostri, si vedono occhi stanchi, affaticati, impauriti; ma il futuro è negli occhi di speranza, capaci di sorridere, mendicanti di Cielo, occhi vivi con cui guardare avanti nella stessa direzione, spinti dal desiderio di ricostruire, occhi solidali, capaci di vedere le ferite altrui, le necessità di tutti, preferendo la cura dell’altro piuttosto che il nostro interesse di conio individualista (moneta falsa). Perdere tempo per l’altro, insieme (avverbio di speranza), è la vera misura dei costruttori di speranza. Sulle macerie del covid non ci serviranno gli eroi di un giorno, ma i protagonisti motivati a generare soluzioni a vantaggio degli altri. Sperare è cominciare ad accorgersi dell’altro. Non siamo nel mondo per far rumore, ma per far segno che la vita vince, perciò è impossibile disperare. “La mia nascita è quando dico un tu”, la madre lo dice al figlio che nasce, è la prima grande speranza del mondo; talvolta con lo scorrere del tempo lo dimentichiamo, e allora la pandemia vince, proprio quando scordiamo (= togliamo dal cuore) che la vita è una realtà plurale.
Domani è Pasqua; questo giorno ci ricorda che la morte non ha l’ultima parola, e che la Risurrezione di Cristo è l’unico vero vaccino: garantisce vita per sempre!
Abbiamo bisogno di un supplemento d’anima che risvegli passione per la bellezza dell’esistere, gioia di vivere per il solo fatto di esserci, amore gratuito per l’altro che è felicità di dare e stare insieme.
È Pasqua, scendiamo nella profondità interiore dove abita quel Dio che è la parte migliore di noi stessi. Un Dio che è stato sepolto sotto le rovine di questa pandemia; aiutiamolo a ritornare in noi.
La speranza non si trova in fondo ai nostri ragionamenti, ma in fondo al nostro impegno, a partire dai luoghi e dalle persone del nostro quotidiano familiare, scolastico, ecclesiale, del tempo libero. Essere pasquali nella nostra quotidianità è un dono e un miracolo. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza”, dimensioni imprescindibili la conoscenza e le virtù, ci suggerisce Dante, a partire dalla virtù della speranza.
Vi auguro “mani sporche”, perché della lunga schiera di indefessi costruttori di speranza ne conosciamo uno: Don Bosco. Nell’aprile di 175 anni fa entrava con i suoi primi ragazzi di strada dentro una baracca usata come pollaio, tra i topi padroni di quella situazione di degrado, e davanti a quei ragazzi inconsapevoli, con grande gioia, disse: “Avremo case, scuole, oratori, Chiese, campi da gioco in tutto il mondo”. Visionario, sognatore, ma soprattutto profeta di speranza. Se si toglie alla vita la speranza, le togliamo l’aria in cui respiriamo, la terra su cui camminiamo.
Roma, 03 aprile 2021 – Sabato di Pasqua
Il direttore Don Gino Berto
Video della diretta Youtube per i genitori dal titolo: è Pasqua, è possibile ospitare la Speranza?